Paura di morire

Mi chiamo Silvana, ho 31 anni e sono infermiera. L’anno scorso, nel mese settembre, ho avuto l’opportunità di fare un’esperienza in Mozambico, presso l’ospedale di Marrere, nella Provincia di Nampula. E’ sempre stato un sogno, per me, fin da piccola, poter conoscere da vicino questi “Paesi lontani” di cui sentivo raccontare dai missionari e di cui vedevo le immagini in diapositiva.

marrere01Qualche anno fa ho frequentato un corso di Medicina Tropicale a Brescia nell’ottica di poterla applicare sul campo. E finalmente il desiderio ha trovato la strada per concretizzarsi! Sono stata in Mozambico insieme ad un chirurgo che quattro mesi all’anno si trasferisce lì e lavora in ospedale. Mi sono fermata un mese, un tempo appena sufficiente per rendersi vagamente conto della realtà intorno, per conoscere gli infermieri dell’ospedale e poter comunicare con loro con le poche parole di portoghese imparate..ma è stato un tempo sufficiente per rendersi conto che un mese è davvero poco!! Sono tornata a casa con la consapevolezza che per potersi accostare ad un Paese dell’Africa o comunque povero bisogna stare per un tempo prolungato in mezzo alla gente, imparare la lingua, prendere i mezzi pubblici, mangiare il cibo locale, andare al mercato.

L’impatto con l’ospedale è stato molto forte. Prima di partire avevo cercato di immaginarmi la situazione che avrei incontrato, come potevano essere le persone, le stanze di degenza, gli operatori sanitari. Ma la realtà sorprende sempre! Non è stato facile accettare che in questa parte del mondo, come purtroppo nella maggior parte del mondo, manca praticamente tutto ciò che serve per l’assistenza minima, per poter sopravvivere, per non morire a causa di malattie banali.

Inevitabile è stato il confronto con il mondo da cui provenivo, un grande ospedale di Milano dove l’abbondanza e gli sprechi sono routine, e nonostante tutto si ha il coraggio di lamentarsi..un ambiente pulito e curato, pazienti in stanze da due col bagno in camera, tutti i presidi per potersi proteggere e lavorare in sicurezza.

Non mi sembrava possibile che contemporaneamente potessero coesistere queste realtà opposte senza che nessuno dicesse niente o se ne accorgesse, senza che il mondo si fermasse per lo sgomento! Tutto questo mi ha messo parecchio in crisi e ha messo in discussione il mio modo di vivere e di lavorare, le mie scelte, le mie opportunità.

Ma non mi sono fermata qui. Giorno dopo giorno ho scoperto dei doni perfino in questo posto sovraffollato, sporco, dove ci si scontra sempre con la povertà, con la poca voglia di lavorare degli infermieri, con le apparecchiature che non funzionano.. Ho riscoperto il cuore del mio lavoro. Partendo da una condizione di mancanza mi sono ritrovata a mettere al centro la persona, la relazione, la comunicazione, la compassione, l’empatia.. Anche l’ostacolo della lingua ha spostato la comunicazione ad un livello più immediato fatto di gesti e sguardi. Ho scoperto il valore e la bellezza del tocco umano, senza tutte le barriere con cui sono sempre stata abituata a lavorare. Poter toccare una persona sporca e trascurata e non averne ribrezzo è per me un gesto grandissimo di comunione, un gesto che rivela all’altro il proprio valore e la propria dignità. Mi sono resa conto di come il mio lavoro mi dia la possibilità di incontrare le persone ad un livello molto profondo e mi permetta di condividere molto di più della malattia.

marrere02Questa esperienza in Mozambico mi ha fatto vivere un forte senso di fragilità davanti alla morte e alla malattia, all’impossibilità di curare e guarire, al dover fare i conti con i limiti. Qui in Occidente nell’ambito sanitario ci si crede spesso onnipotenti, si crede di poter risolvere qualunque problema e malattia e ci si sente dei falliti se questo non succede. In Mozambico si deve volare molto più basso, non pretendere di risolvere tutti i problemi. La morte è una realtà con cui ci si confronta normalmente e quotidianamente, come una tappa della vita. Ho imparato allora che l’obiettivo di chi lavora lì è fare tutto quello che si può con le risorse che ci sono perché alle persone sia sempre riconosciuta la propria dignità. Nel mio diario scrivevo: ”Forse quello che si può fare è riconoscere tutta la propria debolezza e fragilità, la propria impotenza davanti a problemi enormi, ma esserci, con la propria persona, con il proprio bene, con la stessa tenerezza che il Signore ha per me. Forse il cuore è proprio questo. ESSERCI e svelare ad ogni persona il suo valore, la sua dignità, la certezza di non essere dimenticata”.

Mi ricordo una ragazza ricoverata per seri problemi cardiaci, poverissima, vestita solo con una capulana, scalza, piena di polvere.. Per poter guarire avrebbe dovuto fare lunghi cicli di antibiotici ed essere operata in capitale. Pura utopia! Sr Elisabetta –il medico con cui ho lavorato in ospedale- le ha procurato un paio di ciabatte ed una maglietta. E’ rifiorita, sembrava un’altra persona, guarita da tutti i mali..donava dei sorrisi stupendi, con il suo sguardo luminoso e riconoscente. Non avrebbe mai potuto fare le terapie né l’intervento, le sono bastate una maglietta ed un paio di ciabatte per sentirsi accolta e considerata. Non so quanto vivrà, e questo è un problema più grande di noi che comunque andrebbe affrontato, ma il tempo che vivrà sarà un tempo fecondo finchè incontrerà persone che sappiano rivelarle il suo valore e la sua unicità.

Per vivere davvero la realtà dal di dentro mi sono ammalata anch’io, prendendomi la malaria! E’ stata un’esperienza traumatica e violenta, nonostante fossi circondata da medici e vivessi in una casa con tutte le comodità. Ho toccato con mano la mia fragilità, la precarietà della vita, l’enorme paura di morire.. Mi sono sentita piccola e indifesa, senza alcun potere sulla mia vita. Ho pensato a tutte le persone ammalate che vivevano nelle capanne senza nessuno che si prendesse cura di loro e non mi sono sentita in diritto di lamentarmi. Per me è stato un momento terribile in cui pensavo alle conseguenze più tragiche e vedevo la mia totale impotenza. Eppure c’è un momento in cui ci si abbandona in modo totale, in cui si deve fare un ulteriore passo nella fiducia. Per me non è stato assolutamente facile né immediato.

Ho cercato di mettermi nelle mani del Signore, di farmi portare da Lui, di credere al suo disegno di Bene anche in questo momento, di lasciarmi portare per mano.. E’ stata una prova di totale debolezza, in cui ci si deve abbandonare. E fidarsi. Non è facile dire :”Qualunque cosa succeda sia fatta la tua volontà”. Pensavo alle parole di Padre Corrado Ciceri del PIME, morto 12 anni fa di tumore, che nel suo testamento spirituale scriveva :”Il Signore mi ha chiesto di fermarmi per comprendere che è Lui che porta avanti ogni cosa, Lui il soggetto e il fine dell’annuncio; credo che il Signore mi chiami ad affidare tutto a Lui perché tutto è suo.”

Tutto questo viaggio, malaria compresa, è stata un’esperienza ricca e significativa, che mi fa guardare in modo nuovo la mia vita, il mio lavoro e il mondo. E’ facile e, purtroppo, inevitabile, riabituarsi alle comodità del nostro mondo, ad uno stile di vita ricco e spesso egoista. Fare memoria delle persone incontrate, delle fragilità vissute e dei doni racchiusi anche dove sembra tutto sporco e sbagliato è il compito di chi vive qui, ma ha uno sguardo e soprattutto un cuore allargato e attento alle esigenze di tutti.

Anche qui, nel mio lavoro, sono chiamata a dare dignità e valore alle persone che incontro, ad avere compassione, a cercare comunione con chi è fragile, povero e solo.

Silvana Volpi

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